Chiesa e Patrono

 
 

Date da ricordare

08.12.1955
Chiesa del Violino eletta “Delegazione Vescovile” - Via Prima, nr. 4
Q.re La Famiglia - Brescia

23.07.1961
Decreto Vescovile di Mons. G. Tredici di erezione a Parrocchia di S. Giuseppe
Lavoratore , sita in Via Prima, 4 – Q.re La Famiglia - Brescia

08.04.1962
Decreto di riconoscimento della Parrocchia di San Giuseppe Lavoratore del Presidente della Repubblica con firma di G. Gronchi e Taviani, ministro degli Interni.

01.05.1962
Bolla di nomina a Parroco di Don Giovanni Teotti a firma di Mons. G. Tredici.

10.09.1986
Decreto Vescovile (protoc. 1259/86)di Riconoscimento della Parrocchia di
San Giuseppe Lavoratore, sita in Località Violino, traversa Ottava, 2 – 25126 Brescia

18.02.1987
Decreto del Ministro degli Interni di riconoscimento a Persona Giuridica

18.04.1987
Pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale nr. 91 al nr. 12 con durata perpetua.
Registrazioneal Tribunale di Brescia nel Registro delle Persone Giuridiche
al nr. 180 e in Prefettura di Brescia al nr. 136 con C.F.  e partita iva

La ristrutturazione della chiesa parrocchiale.

 

Da qualche tempo era davanti agli occhi di tutti la necessità di un intervento di ristrutturazione della nostra Chiesa.

Si è scelto di realizzare una controsoffittatura in cartongesso che garantisse un elevato isolamento termico e che permetesse di nascondere tutta la nuova impiantistica elettrica e le nuove canalizzazioni del riscaldamento e del condizionamento.

Abbiamo provveduto a sostituire tutti i quadri elettrici, le tubazioni e i cavi elettrici secondo la normativa vigente; inoltre il nuovo impianto di illuminazione permette una migliore diffusione della luce nei vari settori della chiesa. L'impianto di ventilazione forzata non permetteva il necessario riscaldamento e raffredamento di tutta la chiesa; soprattutto in inverno vi era una notevole dispersione termica che rendeva vana l'accensione.

Quindi è stata modificata la distribuzione dell'aria spostando le canali e i diffusori a soffitto e intervenendo nel locale caldaia con la sostituzione delle ventole e della macchiena di refrigerazione.

Infine la tinteggiaggiutara con diverse sfumature ha dato maggior risalto e valore ad ogni parte della chiesa. 

I lavori sono terminati a maggio 2011.

"Io sono  la porta"

 

Gesù Cristo è la porta dell'incontro con Dio, con se stessi e con gli altri.

 

Abbiamo dotato la nostra chiesa di una nuova e bella porta, molteplici i messaggi sottesi all'apparato iconografico.

Il compito affidato ad essa è di mostrare che al centro del cristianesimo c'è Cristo con la sua croce, Lui che diviene la nostra via e vita. La croce è posta in evidenza per il grande mistero che essa racchiude: il primato dell'amore di Dio è senza dubbio ciò che oggi più necessita ribadire.

 

A chi la oltrepassa è dato un riposo e un nutrimento orientati a riprendere le forze per ricominciare il cammino nel quotidiano, ricchi di una fede sensata e capace di arricchire le nostre vite.

 

A chi resta fuori e a chi le si avvicina per entrare nel luogo sacro, la porta ricorda l'amore di Cristo per l'uomo, amore che certo esige una risposta d'amore: "Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Gv 15,12)

 

 

Le vetrate

Pio XII istituì nel 1955 la festa di san "Giuseppe Lavoratore" per dare un protettore ai lavoratori e un senso cristiano alla festa dl lavoro, per sottolineare l'importanza e la dignità del lavoro, anche quello svolto umilmente e nel silenzio della propria dimora, quella di San Giuseppe sembra un'esistenza non molto diversa da quella di tanti altri uomini del suo tempo. In realtà, per la Chiesa, è un'esistenza degna di essere proposta come modello per ogni lavoratore, perchè è un'esistenza tutta proiettata all'ascolto della Parola di Dio e posta al servizio del Suo disegno di salvezza.

La nostra parrocchia celebra San Giuseppe Lavoratore patrono e protettore. A lui sono dedicate le vetrate che abbelliscono la nostra chiesa. Ogni vetrata ci ricorda le tappe più importanti del cammino del nostro patrono.

 

sui confessionali

5. L'annunciazione a Giuseppe

6. La Fuga in Egitto

 

I quadri

Un ciclo pittorico per una chiesa di non grande pregio artistico-architettonico risponde a varie esigenze: fare memoria dei momenti più significativi della nostra fede, quindi aiutare l'incontro con Gesù Cristo e con i misteri della fede.

Con il completarsi di questo ciclo pittorico si conclude il percorso di restauro e miglioramento della nostra chiesa iniziato con il precedente parroco don Agostino Bagliani e concluso con l'attuale parroco don Raffaele Donneschi. 

 

Don luigi Salvetti ha progettato e realizzato questo grande ciclo pittorico che testimonia la sua sensibilità di cristiano,  di prete e di artista.

 
 

    

1981 Bollettino n. 6

Cenni di una storia lunga e difficile

 

La sera del 7 dicembre 1955 inaugurata la chiesa del Violino, il primo VIllaggio Marcolini, ancora in fase di costruzione.

Già da allora, cioè in partenza, si è cominciato a parlare di provvisiorietà della chiesetta appena inaugurata, messa in piedi a vero tempo di record in soli 40 giorni.

Va da sè che l'idea della provvisorietà della cappella esistente ha sospinto un pò sempre i responsabili della comunità parrocchiale e pensare ad una soluzione definitiva.

Fu così che, con intensità più o meno rimarcata a seconda dei periodi, il problema della chiesa nuova venne tenuto vivo ed agitato con l'intento di raccoglierecopnsensi e promuovere un coinvolgimento vastoil più possibile.

IL lungo e sofferto cammino dell'operazione nuova chiesa ora è terminato: l'edificio è una realtà imponente e definitiva. Ma le difficoltà che questa realizzazione ha incontrato nel tempo sono state tante, sia sul piano formale e pratico che sul piano dellaopportunità o meno di una impresa del genere.

Ripercorrere quel cammino non è cosa facile: la dimensione del problema era per la nostra comunità e resta considerevole.

Il solo fatto di dover andare molto indietro negli anni rende l'analisi delle situazionimolto difficile: oggi tutto rischia di apparire molto semplicistico, mentre quando si cominciò a pensare a questa realizzazione tutto era molto avveniristico e complesso come si può rilevare anche dalle note che seguono.

 

Le tappe del travagliato cammino:

 

Nel marzo del 1962 veniva istituito il Patronato Famiglie pro erigenda nuova chiesa, che raccoglieva 175 adesioni: un numero considerevole se si calcolano le dimensioni del villaggio a quella data. L'ampliamento del quartiere era comunque già in atto.

L'anno 1964, come emerge dalla rilettura dei Bollettini Parrocchiali, ha posto in primo piano il problema della gioventù e dell'oratorio per la stessa. E il problema non è rimasto a lungo a livello di parolee di discussioni.

Nel 1965 l'otto dicembre, l'oratorio veniva inaugurato. QUesto poteva certamente indurre a pensare ad un superamentop della operazione chiesa nuova:

Infatti l'oratorio affiancato alla chiesa è sempre ed ovunque apparsa una soluzione ottimale. Forse anche per questo ha preso una certa consistenza l'ipotesidell'ampliamento della chiesetta già esistente, in alternativa ad una nuova costruzione.

L'operazione nuova chiesa entra comunque nella sua fase più problematica quando si è trattato di dare una destinazione all'area lasciata libera al centro del Villaggio.

Da un lato c'era la necessità vissuta da molti di un nuovo e più adeguato punto di riferimento della comunità ecclesiale del VIolino: la nuova chiesa; dall'altro le aspirazioni di chi vedeva nell'area centrale del quartiere lo spazio idoneo per la realizzazione di quelle strutture sociali che da più parti venivano da tempo richieste e sollecitate.

Occorre comunqu a mio avviso sgomberare il campo da equivoco di fondo venutosi a creare e diventato motivo di divisione tra abitanti e le realtà sociali esistenti: chiesa si, chiesa no.

Non è certamente esatta una siffatta interpretazione della situazione.

E' senz'altro più corretto dire che, vista la incapacità e la mancanza di volontà della amministrazione comunale ad affrontare i grossi problemi del quartiere, diversi cittadini sono intervenuti, nei modi più svariati, magari anche pesantemente a volte, ma penso sempre entro forme lecite e democratiche, per sollecitare il comune stesso a programmare e finalizzarecon serietà e chiarezza l'utilizzo di quell'area.

 

La stessa in parte era già comunale e si voleva che il comune acquisisse il resto al solo scopo di colmare le carenze di strutture sociali nel nostro quartiere, sottrando, nel contempo uno spazio cosìimportante all'ambandono e al degrado che tutti abbiamopotuto constatare nel tempo.

Le discussioni e le opposizioni all'interno del villaggio erano rivolte quindi solo allo scandaloso non utilizzo dell'area e non certo alla costruzione della nuova chiesa, fra l'altro prevista anche nel piano regolatore.

Nel 1973  la Parrocchia ha maturato la decisione di costruire la nuova chiesa.

Nel 1974 appare il primo progetto, nel 1975 iniziano i primi lavori con l'architetto Campiani

Nel 1979 in maggio si ha la benedizione della prima pietra.

La dottoressa Giuseppina Ciampani, architetto progettista della nostra chiesa, rispondeva ad un'intervista nel bollettino parrocchiale del 1981:

 

"La chiesta è posta verso est, dove nasce la luce all'oriente: è segno di Dio. La gente che entra guarda verso la luce dell'est. Inoltre questa posizione mi ha consentito il richiamo a fini geometrici, dell'angolo verde rialzato e coltivato che già preesisteva.

La forma absidale della cupola dà il segno dell'infinito. E' una forma basilicale.

 

E' il luogo dove nelle chiese romaniche viene rappresentata la risurrezione di Cristo. La cupola è l'unico elemento di verticalità della composizione. L'equilibrio geometrico è ricomposto dall'altra semicupola, quella del campanile, e da quella forma circolare a torre alla destra dell'ingresso, che originariamente doveva essere il Battistero e che in realtà oggi è una scala.

Una volta il Fonte Battesimale era esterno alla chiesa perchè il Battesimo era la condizione per entrare in chiesa. Con don Teotti si è convenuto di fare il Battistero in chiesa, alla destra dewll'altare.

 

Il semiarco dietro l'altare ha il compito di ridurre la profondità e di avvicinare il celebrante all'assemblea e di unire la dimensione verticale a quella orizzontale.

Bollettino Parrocchiale n. 6

- Inaugurazione della nuova Chiesa

Mercoledì 2 dicembre 1981 h. 20 Celebrazione Eucaristia e riflessione proposta dalle famiglie

Giovedì 3 dicembre 1981 h. 20 Celebrazione Eucaristica e proposta dai giovani

Venerdì 4 dicembre 1981 h. 20 Celebrazione Eucaristica e riflessione proposta dagli adulti

Sabato 5 dicembre 1981 h. 18 Celebrazione eucaristica e riflessione proposta dagli anziani

Domenica 6 dicembre 1981 h. 11 Celebrazione Eucaristica e riflessione proposta dai bambini

Lunedì 7 dicembre 1981 h. 20 Assemblea parrocchaile con Tavola rotonda sulla nuova Chiesa: note storiche, architettoniche ed economiche.

 
 

Le Tappe di un'imponente realizzazione sociale

Benedetta al Violino la chiesa del quartiere

Il suggestivo rito svoltosi ieri sera alla presenza del Vescovo monsignor Tredici

Il tempio è sorto in quarantacinque giorni

 

dal Giornale di Brescia di giovedì 08/12/1955

  Ieri sera alle 18.30, all'ora in cui la gente che lavora rientra dall'ufficio e dallo stabilimento, e fila a casa svelta con l'intimo stimolo di riabbracciare la propria moglie e i propri figli, ieri sera a quest'ora alle soglie del quartiere Violino, oltre il ponte del Mella, si sono accese le luci di festa sula facciata di una chiesa così fresca e così recente, che aveva ancora le impalcature issate attorno alla breve abside. una chiesa eretta in quarantacinque giorni, sorta con quel ritmo di necessità e di risolutezza che caratterizza l'intera realizzazione del primo quartiere sociale Brescia-Ovest, al quale tien dietro, a passo egualmente rapido, il quartiere numero due, quello della Badia.

 

Al Violino, per la benedizione di questa chiesa ancora odorosa di muri umidi e di legni appena piallati, era atteso il Vescovo mons. Tredici. I ragazzi facevano festosissima corona attorno a padre Marcolini, mentre le loro mamme accendevano ai davanzali delle linde casette più prossime alla chiesa improvvisate, volenterose, fantasiose luminarie.

 

Alla sommità del piccolo campanile le orbite della cella erano ancor vuote dei sacri bronzi: alla carenza delle campane suppliva il rintocco di uno scampanio artificiale, diffuso a mezzo altoparlanti, e il contrasto tra un concerto così solenne, inciso chissà sotto quale dovizioso tempio, e la modestia della chiesetta ancorata con le sue trepide luci nel gran mare di nebbia della poeriferia, dava a tuttta la scena un tono patetico, un'accentuazione umana e mistica a un tempo.

 

Mentre autorità convenute aspettavano l'arrivo del Vescovo, al cronista si fece incontro un sacerdote, il parroco del Violino. Fresco e spoglio anche lui, come freschi e spogli sono i muri della sua chiesa, questo prete si chiama don Giovanni Teotti, ha quarant'anni e ne mostra meno di trenta, ed è stato "rubato" alla cura d'anime di Castenendolo. Da Castenedolo i suoi giovani, che fecero di tutto per non lasciarlo partire, erano venuti a festeggiarlo, portandogli in dono una statua della Madonna Immacolata, la quale stava già bella e issata sull'altar maggiore.

 

San Giuseppe nella predicazione apostolica

 

 Nei Vangeli, che sono la testimonianza della predicazione apostolica, la figura di S. Giuseppe è presente soprattutto in Matteo e Luca, nella parte che si riferisce alla vita nascosta di Gesù. Dal punto di vista biografico, le notizie che riguardano S. Giuseppe possono sembrare scarse, ma sono essenziali per la Cristologia.

Discendente dalla famiglia di Davide attraverso Giacobbe (Mt. 1,16) ed Eli (Lc. 3,23); S. Giuseppe vive a Nazaret, in Galilea, al fianco di Maria sua sposa (1,27). Confermato da un angelo circa la divina maternità di lei, riceve l'incarico di assumenre la paternità del figlio, generato per opera dello Spirito Santo (Mt. 1,20 s.)

 

In ottemperanza a una disposizione di Cesare Augusto (Lc. 2,1), si deve recare a Betlemme, in Giudea, essendo della casa e della famiglia di Davide (1,27;2,4), per iscrivere se stesso e la sua famiglia.

 

Là nasce il Bambino, visitato dai pastori e dai magi.

Giuseppe provvede alla circoncisione del figlio, gli impone il nome (Lc. 2,21), si reca a Gerusalemme per l'offertadel primogenito e il suo riscatto (vv. 22 ss.), incontrandosi con Simeone ed Anna. Avvertito nel sogno, fugge in Egitto con l amadre e il bambino, ricercato a morte da Erode (Mt. 2,13 ss.).

 

Cessato il pericolo, rientra in Israele e ritorna a Nazaret (v.23). Siamo informati di un viaggio a Gerusalemme (Lc. 2,41 ss), al dodicesimo anno di Gesù e del dolore dei suoi genitori per l'inattesa sua permanenza nel tempio. Riguardo alla sua attività, S. Giuseppe era técton (Mt. 13,55; Mc 6,3) ossia artigiano. Egli è sempre presente come sposo di Maria e padre di Gesù, ritenuto suo figliosia dalla sposa che dagli estranei.

 

Gli è attribuita la qualifica di giusto(Mt. 1,19). I vangeli non ci informano di più sulla vita e nulla dicono della sua morte o sul luogo della sepoltura.

Appare chiaro allora che l'importanza teologica della presenza di S. GIuseppe nei Vangeli non va commisurata alla quantità delle parole a lui dedicate.

S. GIuseppe è considerato dagli evangelisti parte integrante della storia della salvezza, intimamente legato al piano dell'incarnazione.

La Chiesa apostolica, infatti, può professare che Gesù è discendente di Davide"secondo la carne" (cfr. Rm 1,3; 9,5; 2 Tm. 2,8) e che quindi Dio è stato fedele alle sue promesse, proprio grazie alla presenza e missione di S. Giuseppe , il quale accogliendo come suo "il figlio di Maria", sua legittima sposa, lo inserisce a pieno diritto nella discendenza davidica, condizione questa indispensabile per il suo riconoscimento come "Messia" (cfr. Gv 7,42). Il titolo di Cristo è ancorato, dunque, a Giuseppe.

POSA DELLA PRIMA PIETRA DELLA CHIESA PARROCCHIALE

 
 

La Cappella feriale

 

L’opera
La grande croce, nei toni caldi del giallo e del rosso, trascende il realismo definito dalle linee che la delimitano e che definiscono la figura del Crocifisso,
connotando l’opera di un simbolismo cromatico, dove il giallo delle tessere di diverse dimensioni è luce vibrante animata dal contrasto tra le piccole tessere auree e
le grandi tessere in pasta vitrea.
Il Cristo, in contrasto con la luminosità retrostante grazie all’utilizzo di toni più scuri, è eseguito con la stessa tecnica musiva ad intarsio: le linee che compongono la figura accentuano la passione e la sofferenza mentre il colore rosso dell’aureola e del sangue è anche in questo caso elemento sinergico al simbolismo dell’opera che
vede questo estremo sacrificio via di salvezza verso la Luce.



La tecnica musiva
Lavorazione a taglio ed a spacco eseguita in particolari posizioni della lastra dovuta alla particolare forma e collocazione all'interno del mosaico delle singole
tessere ; collocazione delle tessere così tagliate, a pezzature grandi, a distanze e su livelli variabili per evidenziare e creare particolari effetti volumetrici nelle
specchiature musive.
I pannelli così formati saranno fissati meccanicamente ad un pannello leggero di alluminio, tale per cui il pannello potrà essere spostato in un secondo momento, e opportunamente sigillati con particolari siliconi che garantiscono un alto grado impermeabilità, aderenza ed elasticità.

 

    

Il Patrono

Sotto la sua protezione si sono posti Ordini e Congregazioni religiose, associazioni e pie unioni, sacerdoti e laici, dotti e ignoranti. Forse non tutti sanno che Papa Giovanni XXIII, di recente fatto Beato, nel salire al soglio pontificio
aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, tanta era la devozione che lo legava al santo falegname di Nazareth. Nessun pontefice aveva mai scelto questo nome, che in verità non appartiene alla tradizione della Chiesa, ma il “papa buono” si sarebbe fatto chiamare volentieri Giuseppe I, se fosse stato possibile, proprio in virtù della profonda venerazione che nutriva per questo grande Santo. Grande, eppure ancor oggi piuttosto sconosciuto. Il nascondimento, nel corso della sua intera vita come dopo la sua morte, sembra quasi essere la “cifra”, il segno distintivo di san Giuseppe. Come giustamente ha osservato Vittorio Messori, “lo starsene celato ed emergere solo pian piano
con il tempo sembra far parte dello straordinario ruolo che gli è stato attribuito nella storia della salvezza”. Il Nuovo Testamento non attribuisce a san Giuseppe neppure una parola. Quando comincia la vita pubblica di Gesù, egli
è probabilmente già scomparso (alle nozze di Cana, infatti, non è menzionato), ma noi non sappiamo né dove nè quando sia morto; non conosciamo la sua tomba, mentre ci è nota quella di Abramo che è più vecchia di secoli. Il Vangelo gli conferisce l’appellativo di Giusto. Nel linguaggio biblico è detto “giusto” chi ama lo spirito e la lettera della Legge, come espressione della volontà di Dio.
Giuseppe discende dalla casa di David, di lui sappiamo che era un artigiano che lavorava il legno. Non era affatto vecchio, come la tradizione agiografica e certa iconografia ce lo presentano, secondo il cliché del “buon vecchio
Giuseppe” che prese in sposa la Vergine di Nazareth per fare da padre putativo al Figlio di Dio. Al contrario, egli era un uomo nel fiore degli anni, dal cuore generoso e ricco di fede, indubbiamente innamorato di Maria. Con lei si
fidanzò secondo gli usi e i costumi del suo tempo. Il fidanzamento per gli ebrei equivaleva al matrimonio, durava un anno e non dava luogo a coabitazione né a vita coniugale tra i due; alla fine si teneva la festa durante la quale
s’introduceva la fidanzata in casa del fidanzato ed iniziava così la vita coniugale. Se nel frattempo veniva concepito un figlio, lo sposo copriva del suo nome il neonato; se la sposa era ritenuta colpevole di infedeltà poteva
essere denunciata al tribunale locale. La procedura da rispettare era a dir poco infamante: la morte all’adultera era comminata mediante la lapidazione. Ora appunto nel Vangelo di Matteo leggiamo che “Maria, essendo promessa sposa a Giuseppe, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo, prima di essere venuti ad abitare insieme. Giuseppe, suo sposo, che era un uomo giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di rimandarla in segreto”(Mt 18-19). Mentre
era ancora incerto sul da farsi, ecco l’Angelo del Signore a rassicurarlo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un
figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21). Giuseppe può accettare o no il progetto di Dio. In ogni vocazione che si rispetti, al mistero della chiamata fa sempre da contrappunto
l’esercizio della libertà, giacché il Signore non violenta mai l’intimità delle sue creature né mai interferisce sul loro libero arbitrio. Giuseppe allora può accettare o no. Per amore di Maria accetta, nelle Scritture leggiamo che “fece
come l’Angelo del Signore gli aveva ordinato, e prese sua moglie con sé”(Mt 1, 24). Egli ubbidì prontamente all’Angelo e in questo modo disse il suo sì all’opera della Redenzione. Perciò quando noi guardiamo al sì di Maria dobbiamo
anche pensare al sì di Giuseppe al progetto di Dio. Forzando ogni prudenza terrena, e andando al di là delle convenzioni sociali e dei costumi del suo tempo, egli seppe far vincere l’amore, mostrandosi accogliente verso il mistero
dell’Incarnazione del Verbo. Nella schiera dei suoi fedeli il primo in ordine di tempo oltre che di grandezza è lui: san Giuseppe è senz’ombra di dubbio il primo devoto di Maria. Una volta conosciuta la sua missione, si consacrò a lei
con tutte le sue forze. Fu sposo, custode, discepolo, guida e sostegno: tutto di Maria. (…) Quello di Maria e Giuseppe fu un vero matrimonio? E’ la domanda che affiora più frequentemente sulle labbra sia di dotti che di semplici
fedeli. Sappiamo che la loro fu una convivenza matrimoniale vissuta nella verginità (cfr. Mt 1, 18-25), ossia un matrimonio verginale, ma un matrimonio comunque vissuto nella comunione più piena e più vera: “una comunione di vita al di là dell’eros, una sponsalità implicante un amore profondo ma non orientato al sesso e alla generazione” (S. De Fiores). Se Maria vive di fede, Giuseppe non le è da meno. Se Maria è modello di umiltà, in questa umiltà si
specchia anche quella del suo sposo. Maria amava il silenzio, Giuseppe anche: tra loro due esisteva, né poteva essere diversamente, una comunione sponsale che era vera comunione dei cuori, cementata da profonde affinità spirituali.
“La coppia di Maria e Giuseppe costituisce il vertice – ha detto Giovanni Paolo II –, dal quale la santità si espande su tutta la terra” (Redemptoris Custos, n. 7). La coniugalità di Maria e Giuseppe, in cui è adombrata la prima “chiesa
domestica” della storia, anticipa per così dire la condizione finale del Regno (cfr. Lc 20, 34-36 ; Mt 22, 30), divenendo in questo modo, già sulla terra, prefigurazione del Paradiso, dove Dio sarà tutto in tutti, e dove solo l’eterno
esisterà, solo la dimensione verticale dell’esistenza, mentre l’umano sarà trasfigurato e assorbito nel divino. “Qualunque grazia si domanda a S. Giuseppe verrà certamente concessa, chi vuol credere faccia la prova affinché si persuada”,
sosteneva S. Teresa d’Avila. “Io presi per mio avvocato e patrono il glorioso s. Giuseppe e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi, in cui
era in gioco il mio onore e la salute dell’anima. Ho visto che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare...”( cfr. cap. VI dell’Autobiografia). Difficile dubitarne, se pensiamo che fra tutti i santi l’umile falegname di Nazareth è quello più vicino a Gesù e Maria: lo fu sulla terra, a maggior ragione lo è in cielo. Perché di Gesù è stato il padre, sia pure adottivo, di Maria è stato lo sposo. Sono davvero senza numero le grazie che si ottengono da Dio, ricorrendo a san Giuseppe. Patrono universale della Chiesa per volere di Papa Pio IX, è conosciuto anche come patrono dei lavoratori nonché dei moribondi e delle anime purganti, ma il suo patrocinio si estende a tutte le necessità, sovviene a tutte le richieste. Giovanni Paolo II ha confessato di pregarlo ogni giorno. Additandolo alla devozione del popolo cristiano, in suo onore nel 1989 scrisse l’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, aggiungendo il proprio nome a una lunga lista di devoti suoipredecessori: il beato Pio IX, S. Pio X, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI.

 

Non c'è bisogno di fare di Giuseppe nessun elogio particolare; la lode maggiore è sttintesa dai compiti a lui affidati, quale capo della Sacra Famiglia, compiti che egli, dal cielo, continua a svolgere, quale patrono della Chiesa e della nostra Chiesa in particolare, con la sua guida e il suo sostegno.



Ci soffermiamo su una sola parola: quella che nei vangeli definisce la professione di Giuseppe e dello stesso Gesù, prima del suo ministero biblico.
Attorno a questa parola greca, téktôn, si è accesa una  polemica tra chi vorrebbe continuare a classificare Gesù e la sua famiglia  nella categoria della povertà e chi, invece, vorrebbe promuoverla al rango di media borghesia, soprattutto in vista dei vari tentativi di raccordare  capitalismo «misericordioso» e cristianesimo.


Ora, è da notare che il primo a definire Gesù un téktôn (e spiegheremo ovviamente che cosa significhi) è Marco che, in occasione di
una visita a Nazaret, osserva che i concittadini ironicamente si chiedono: «Non è egli il téktôn, il figlio di Maria?» (6,3). Matteo,
che probabilmente si trova a disagio con questo sarcasmo e con questo titolo, riprende il racconto di Marco, ma con una curiosa variante: «Non è egli [Gesù] il figlio del téktôn?» (13,55).


Com’è evidente, qui è Giuseppe ad essere iscritto a questa professione. Che  la cosa non fosse molto esaltante è confermato anche da Luca che, molto più  asetticamente, trasforma così la domanda: «Costui non è il figlio di Giuseppe?»  (4,22). A questo punto, per definire lo statuto sociale di Gesù e del suo padre ufficiale è necessario studiare non solo il vocabolo in questione, ma anche le coordinate socio-economiche della Palestina di quell’epoca.


Il termine téktôn di per sé indica il falegname o il carpentiere, «colui che esercita il suo mestiere con un materiale duro che conserva la sua durezza durante la lavorazione, per esempio legno, pietra, corno, avorio», come scrive Richard A. Batey in un saggio
scientifico sul vocabolo in questione (non sarebbe, allora, corretta la resa «fabbro»). Le antiche versioni siriaca e copta dei vangeli, i Padri greci della Chiesa, la tradizione popolare e iconografica, hanno optato per la traduzione «falegname».


Tuttavia non bisogna dimenticare che il legno non serviva solo per approntare aratri o mobili vari, ma anche come vero e proprio materiale di costruzione edilizia: infatti, oltre ai serramenti in legno, i tetti a terrazza delle case palestinesi di allora erano allestiti con travi connesse tra loro con rami, argilla, fango e terra pressati, tant’è vero che, dopo le piogge primaverili, potevano spuntare anche steli e un velo verde, come è ricordato nel salmo 129 (vv. 6-7: «Siano come l’erba dei tetti, che, prima di essere strappata, è già secca! Non se ne riempie la mano colui che miete né il grembo colui che raccoglie»).


Con i recenti scavi di Sefforis, un’elegante città a soli 6 chilometri da Nazaret, scelta come prima capitale (poi sarà Tiberiade, sul lago omonimo) del suo piccolo regno di Galilea da Erode Antipa (quello che uccise il Battista e incontrò Gesù durante la passione), si è fatta strada l’idea in alcuni studiosi che Giuseppe e suo figlio abbiano lavorato anche là, entrando così in contatto con la cultura urbana ellenistica.


Tuttavia è strano che nei vangeli non sia mai menzionata Sefforis durante il ministero galilaico di Gesù: saremmo perciò di fronte solo a una generica possibilità. Ma a questo punto è necessario collocare la classe del téktôn nel quadro sociale dell’Israele di allora. Per cercare di elevare di rango Gesù, uno studioso tedesco, Rainer Riesner, nell’opera Jesus als Lehrer («Gesù come maestro»), pubblicata nel 1981, è risalito all’equivalente
aramaico del vocabolo téktôn: in quella lingua, allora parlata, si usava il termine naggara’, che voleva dire «carpentiere, falegname, tornitore, artigiano», ma che poteva significare anche «maestro, artista».


Così Giuseppe e Gesù sarebbero stati in realtà insegnanti o artisti.
Peccato, però, che questo significato «liberale» del vocabolo naggara’ sia documentabile solo in epoca tarda e che esso non abbia alcun riscontro nelle antiche tradizioni giudaiche della Mishnah, la raccolta documentaria della vita e delle credenze dell’Israele anche dell’epoca di Gesù.

Se, dunque, stiamo all’accezione più comune e fondata sopra descritta, ci possiamo ora chiedere: essere téktôn significava appartenere all’ultimo livello della scala sociale, per cui Cristo era sostanzialmente un povero e un indigente? Naturalmente la nostra risposta prescinde dal suo successivo insegnamento radicale e «utopico» nei confronti della ricchezza, insegnamento che spesso è sbrigativamente liquidato o
«smitizzato» da certi alfieri del connubio tra capitalismo e cristianesimo. 

Su questo argomento, in realtà, bisogna procedere con molta cautela, senza fondamentalismi, sì, ma anche senza fin troppo comodi sincretismi, come fanno certi teologi americani del conservatorismo «misericordioso». Se stiamo alla documentazione e alla ricostruzione più attenta e fondata del quadro socio-economico giudaico del I secolo, possiamo ottenere i risultati che seguono:

a) a livello delle alte classi, in quel piccolo principato che era la Galilea si attestava un gruppo molto ristretto, che comprendeva, oltre a Erode
e alla sua corte di ufficiali e di notabili (evocata nel racconto del martirio del Battista, in Marco 6,21), i latifondisti, i grossi mercanti e i
sovrintendenti alla esazione delle tasse (si pensi a Zaccheo, anche se egli era di Gerico, in Giudea);

b) al livello opposto, il più basso, erano collocati invece i lavoratori a giornata (si ricordi la parabola di Matteo 20,1-16), i braccianti e quello che
Sean Freyne, nella sua opera sulla «Galilea da Alessandro il Grande ad Adriano»
(Galilee from Alexander the Great to Hadrian), pubblicata in America nel 1980, chiama «il proletariato rurale»;

l’abisso era raggiunto dagli schiavi per debiti, costretti a un pesante lavoro agricolo nei latifondi; essi, però, costituivano un’entità molto ridotta. La
categoria del téktôn, come quella prevalente dei piccoli coltivatori e dei pescatori – alla cui cultura Gesù attingerà spesso nella sua
predicazione, elaborandone immagini e comportamenti –, si collocava a un livello intermedio tra quei due estremi, ma con una tendenza verso il basso.

Perciò non ha alcun senso applicare alla famiglia di Gesù la classificazione di middle class, che negli Stati Uniti ha un valore molto più alto nella scala sociale, né quella di borghesia a cui siamo abituati. Con molta fantasia c’è stato chi, come G. Wesley Buchanan, in un articolo apparso nel 1965 sulla rivista Novum Testamentum è arrivato al punto di immaginare Gesù come un amministratore commerciale che sovrintendeva agli operai di un’impresa di costruzioni (il titolo era significativo: Jesus and the Upper Class)!

In realtà la famiglia di Gesù non era povera in senso stretto, ridotta alla miseria degli schiavi o all’aleatorietà economica dei lavoranti a giornata, ma neppure era da ricondurre alla nostra borghesia commerciale, piccola o media che sia. Si trattava di un tenore di vita decoroso ma modesto, legato per il contadino alle mutazioni climatiche e al mercato e per il falegname-carpentiere-artigiano alle commissioni, all’incremento edilizio e all’inflazione, per non parlare delle tassazioni gravose, sia civili sia religiose.

In questa luce – ovviamente con differenti coordinate storiche e sociali – la famiglia di Gesù è da ricondurre alla maggioranza dei lavoratori dipendenti attuali e a certi ambiti artigiani solo familiari e ristretti. I dati evangelici sulla sua vita e sulla sua predicazione lo riportano costantemente a questo orizzonte semplice e modesto.

I centri che egli visiterà durante la sua predicazione galilaica saranno appunto quelli popolati da questa classe: Nazaret, Cana, Nain, Corazin, Cafarnao. Come si è detto, il suo itinerario non comprenderà mai Sefforis o Tiberiade, città ellenistiche e «residenziali». Anche questa «modestia» diventa, allora, un segno dell’incarnazione che colloca Dio nella quotidianità semplice.

Il cristiano sarà invitato a lavorare con le proprie mani, come farà anche Paolo che ai Tessalonicesi scriverà: «Voi ricordate, infatti, o fratelli, le nostre fatiche e i nostri stenti: lavorando giorno e notte per non essere di peso a nessuno di voi, vi abbiamo predicato il vangelo di Dio» (1Tessalonicesi 2,9), ribadendo comunque che «se uno non vuole lavorare, neppure mangi» (2Tessalonicesi 3,10); un impegno condotto con fedeltà, ma senza la frenesia dell’accumulo, come suggerirà Gesù stesso nel Discorso della Montagna: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete […].

Non angustiatevi, dunque, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo?” oppure:
“Di che ci vestiremo?” Tutte queste cose le ricercano i gentili» (Matteo 6,25.31-32). Tra parentesi, è curioso ricordare che il motto paolino «chi non lavora non mangia» fu inserito anche nella costituzione sovietica, e Lenin, nell’opera I bolscevichi conserveranno il potere statale?, scriveva: «Chi non lavora non mangia: ecco la regola essenziale, iniziale, principale che possono e debbono applicare i soviet quando saranno al potere!».

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